Mons. Dubost: "Dare voce ai cristiani di Terra Santa"

Intervista con il Vescovo di Evry-Corbeil-Essonnes, membro del Coordinamento delle Conferenze Episcopali per la Terra Santa, presidente del Consiglio per le relazioni interreligiose della Conferenza Episcopale Francese e membro del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso

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Mons. Dubost: "Dare voce ai cristiani di Terra Santa" Monsignor Michel Dubost durante una visita al Centro Nostra Signora della Pace ad Amman. Foto: Mazur

Monsignor Michel Dubost, come e perché si è costituito il «Coordinamento per la Terra Santa» in nome del quale è stato recentemente in visita a Gaza, a Betlemme, nella valle di Cremisan e in Giordania? 

«Il Coordinamento dei vescovi per la Terra Santa è stato istituito dalla Santa Sede e riunisce i vescovi che rappresentano le Conferenze Episcopali che, per una ragione storica o pastorale, hanno a cuore la Terra Santa. Col tempo, questo coordinamento si è arricchito di persone che conoscono bene la Terra Santa e che rappresentano grandi organizzazioni, come i membri del Santo Sepolcro. Ci accompagnano anche alcuni giornalisti. Bisogna rendere omaggio alla Conferenza Episcopale della Gran Bretagna che è il vero motore del nostro lavoro. Abitualmente descriviamo la nostra missione con quattro “P”: “P” come presenza per i cristiani in Terra Santa; “P” come pregare con e per loro; “P” come pellegrinaggio in quanto riteniamo che il lavoro dei cristiani in Terra Santa dipenda in gran parte dai pellegrinaggi e che l’avvenire dei pellegrinaggi dipenda in gran parte da queste pietre vive che sono i cristiani locali; “P” come perorare: ci assumiamo infatti la missione di difendere la causa di questi cristiani pubblicamente e presso i governanti». 
 

Parliamo innanzitutto di Gaza. Cosa ha potuto constatare sul posto? È vero che «i cristiani sono sottoposti a numerose pressioni» come ha titolato un giornale? 

«A Gaza i cristiani sono solamente una manciata di persone in una società che vive un dramma da lunghi anni. È comprensibile che la maggioranza e coloro che governano siano tentati di dimenticare questa minoranza, addirittura di non considerarla affatto per andare verso ciò che sembra importante nell’immediato. Siamo in questa situazione. La pressione è aggravata dal carattere fortemente islamista di Hamas, ma è anche temperata dal ruolo della comunità cristiana che, benché piccola, rende un enorme servizio alla formazione e all’aiuto, per esempio nei confronti delle persone con disabilità». 


Lei si è recato anche a Betlemme. Questa città è oggi un luogo di pace? Quali testimonianze ha potuto raccogliere su questo argomento, in particolare parlando con il sindaco di Betlemme, Vera Baboun? Ha potuto incontrare le famiglie della valle di Cremisan le cui terre sono state confiscate? Che cosa si può dire della loro situazione? Vede una soluzione? 

«Quest’anno non ho incontrato il sindaco Vera Baboun. È una donna notevole. Non si può dire, tuttavia, che Betlemme sia in pace. Ogni anno il suo territorio diminuisce. Il suo accesso all’acqua diminuisce. La libertà di circolare dei suoi abitanti diminuisce. Il suo territorio diminuisce, per esempio con la costruzione del “muro di Cremisan”. Questo muro non ha la funzione di aumentare la sicurezza in generale, ma quella di proteggere i coloni che occupano illegalmente, agli occhi della legge internazionale, questa parte del territorio. Siamo chiari: molti di questi coloni non hanno nemmeno idea di ciò che fanno subire ad altri esseri umani come loro. Quando si arriva al muro, i cartelli indicano che ai cittadini ebrei è vietato recarsi sull’altro lato… che c’è pericolo di morte. Come potrebbero non crederci? Di fatto, sarei tentato di parlare a lungo dei contadini di Cremisan ma non saprei farlo: bisognerebbe descrivere il loro sguardo, il modo di essere uomini attaccati ai loro ulivi millenari. Hanno condotto la lotta in modo non violento, e tutto indica che l’hanno persa. Solo un miracoloso risveglio dell’opinione pubblica internazionale potrebbe forse cambiare qualche cosa. Ma il modo in cui i loro vescovi, una decina in tutto, sono stati trattati dalla polizia israeliana dice alla gente: “Abbiamo la forza e niente ci impedirà di fare ciò che vogliamo fare”». 


Come viene vissuto in Terra Santa l’accordo diplomatico tra la Santa Sede e lo Stato della Palestina, entrato in vigore il 2 gennaio scorso? Che cosa le è stato detto a questo proposito? Si può sperare, a breve termine, in un accordo di questo tipo con lo Stato Israeliano? 

«Certamente abbiamo parlato degli accordi tra la Santa Sede e lo Stato della Palestina. Paradossalmente non abbiamo parlato del Fundamental agreement (accordo fondamentale - ndt) in discussione tra la Santa Sede e Israele, benché fosse un tema ricorrente da oltre dieci anni. Non sono un politico. Mi sembra che il percorso seguito da Israele sia segnato da un lato dalla legittima volontà di essere padrone in casa propria e dall’altro dalla tentazione di escludere tutti coloro che non sono ebrei. Quest’anno, sono stati perpetrati atti anti-cristiani. Da qualche anno alcuni ministri hanno lasciato intendere che sarebbe meglio che gli arabi partissero, contribuendo a diffondere nel paese l’idea che, dopotutto, sarebbe meglio che ciascuno stesse a casa propria, sia questa religiosa o etnica. Questa tentazione, evidentemente, non è quella della maggioranza ma alcuni musulmani altrove la condividono e può essere condivisa anche da alcuni ebrei. Bisogna ricordare che la Terra Santa è stata per molto tempo una terra cristiana e che i cristiani hanno anche una legittimità storica a rimanere. È facile biasimare, sospettare… ma sarebbe necessario soprattutto riflettere teologicamente sul legame della nostra fede con la terra. Ebrei, musulmani e cristiani avrebbero tutto l’interesse a esprimere chiaramente ciò che pensano e a collocarsi con realismo nel mondo così come è». 


Il Coordinamento per la Terra Santa si è recato in Giordania a incontrare dei profughi siriani e iracheni, in particolare cristiani. Che cosa avete visto sul posto e che cosa si può fare per loro a distanza? 

«Oggi la gente è molto preoccupata per i siriani. È comprensibile e ciò deve essere sostenuto. Mi sembra necessario, tuttavia, non dimenticare gli iracheni. A tutt’oggi, gli iracheni sono i soli che, con gli yazidi, sono stati cacciati a causa della loro fede o della loro religione. Tenere conto della loro religione non significa uscire dalla laicità francese o delle Nazioni Unite poiché questa è la causa della loro persecuzione politica. Ho ammirato sul posto la Chiesa giordana e il regno tutto intero. Una Chiesa fragile, un regno senz’acqua e senza energia accolgono una popolazione di quasi tre milioni di profughi – contando anche i palestinesi e gli yemeniti – cosa che porta la popolazione totale della Giordania a nove milioni. Un abitante su tre è uno straniero! Bisogna dirlo, farlo sapere e rifiutare di chiuderci negli egoismi che ci discreditano». 


Mentre gli interessi di alcuni gruppi cercano di trascinare i cristiani occidentali in un conflitto islamofobo che non appartiene loro, quali iniziative propone per resistere alle manipolazioni portatrici di odio e di violenza? 

«Il nostro mondo ha paura. La paura crea protezionismi e rinchiude nei territori. È necessario andare incessantemente all’incontro dell’altro. Senza paura. Ma, per questo, bisogna essere sicuri di sé e direi, soprattutto, di Dio. Ciò che mi colpisce è la difficoltà di alcuni cristiani nel comprendere che il Cristo è vittorioso, che il perdono è vittorioso, che la misericordia è vittoriosa. È vero che la misericordia comporta dei rischi ma l’egoismo porta alla morte spirituale che è da temere più della morte fisica! Con i musulmani, su molti punti, non siamo d’accordo, ed è un bene essere sufficientemente fraterni per dirlo, ma Dio ci parla anche attraverso loro. Sono creature del Verbo ed è necessario ascoltarli. Forse la Vergine Maria, nel suo silenzio, ci offre un cammino, lei che non comprendeva ma meditava tutto nel suo cuore». 


Intervista a cura di François Vayne


(21 gennaio 2016)